Voglio trovare un senso

di Roberto Cazzanelli, padre di un giovane con autismo. Testimonianza raccolta da Maria Buzduga al seminario “Esperienze e traiettorie per la promozione della qualità di vita nella disabilità” organizzato dalla cooperativa Impronte

Quando nasce un figlio con disabilità c’è una ferita genitoriale, un trauma che non si rimargina e con il quale bisogna imparare a convivere. Mio figlio Matteo ha cominciato a manifestare le prime forme di autismo verso i 18 mesi: da quel momento fino a quando non abbiamo avuto la diagnosi concreta, abbiamo vissuto una sorta di attesa prolungata durante la quale ci siamo aggrappati a molte speranze, generate anche da frasi comuni dei pediatri come “i bambini hanno tutti i loro tempi”. I genitori si sentono colpevoli perché hanno delle aspettative sugli sviluppi normali del bambino e sembra quasi che i problemi siano indotti proprio dai loro comportamenti ansiosi, dal fatto che il bambino desiderato non è il bambino reale.

Un figlio disabile significa anche famiglia disabile, perché la disabilità non è mai vissuta singolarmente, ma si estende ai genitori, alla coppia, ai fratelli e alle sorelle e questo porta a reazioni e dinamiche familiari le più diverse. L’interrogativo esistenziale più comune è: “perché a noi?” Lo stesso desiderio di mettere al mondo altri figli viene condizionato dalla presenza di un bambino con disabilità e, quando ci sono già dei fratelli e delle sorelle, spesso l’accudimento e le attenzioni dei genitori vengono concentrate maggiormente sul più fragile con il rischio di impoverire così la qualità del tempo da dedicare agli altri.

Insieme

Due sentimenti contrastanti accompagnano chi vive con una disabilità in famiglia: lo scoraggiamento da una parte che porta con sé senso di impotenza, ma anche, dall’altra, un’energia positiva, un attivismo che nasce dal non darsi pace nella ricerca di soluzioni per garantire la qualità di vita migliore possibile al proprio figlio. La disabilità e il coraggio di affrontarla diventano anche un tema di coppia perché di fronte a problemi che riguardano i figli, i genitori possono assumere diversi comportamenti e sentire diversi limiti. E quindi la parola che unisce tutte le sfumature di una disabilità e di una diversità è: “insieme”. Insieme, per altro, non si limita all’ambito familiare, ma si estende anche ai contesti sociali e di aggregazione, alle strutture e ai servizi dove il concetto di benessere, di stare bene insieme diventa fondamentale per le persone con disabilità e per la loro realizzazione.

L’asilo nido è stato uno dei primi contesti di confronto per Matteo, è infatti il primo luogo sociale che va oltre la famiglia e permette ai bambini di entrare in connessione con altri spazi e persone. Per noi genitori è stata la presa di coscienza della possibile emarginazione di nostro figlio; la parola suona brutale, ma ci siamo resi conto della necessità che nostro figlio aveva non solo di essere accompagnato da una maestra di sostegno, ma anche di seguire particolari percorsi educativi per soddisfare i suoi bisogni. La diversità che deve sviluppare consapevolezza e responsabilità. I limiti e le differenze con gli altri si incrementano durante il percorso scolastico e quindi richiedono di trovare un approccio e un metodo all’inclusione che facilitino la convivenza e le relazioni. Di per sé il bambino forse non vive il senso di emarginazione nella sua più totale pesantezza, ma per i genitori è un problema quotidiano da affrontare.

Dopo la primaria, Matteo ha frequentato un liceo professionale che prima di allora non aveva mai avuto esperienze di inserimento di bambini disabili. Di fronte a questa situazione, la scuola ha ritenuto necessario formare tutti gli insegnanti attraverso un percorso di conoscenza del fenomeno e di questa realtà e non limitarsi “solo” all’insegnante di sostegno. Una bella esperienza di “mettersi in gioco” in coerenza con i valori fondanti della scuola.

Conoscere

Dall’esperienza di Matteo abbiamo capito che molte volte la mancata inclusione non è intenzionale o conseguenza di povertà di valori etici; spesso alla base vi è una carenza conoscitiva della disabilità e della persona disabile. Conoscere e far conoscere la disabilità diventa un fattore importante per favorire l’inclusione e per favorire la reciprocità, perché questi ragazzi possono dare tanto se incoraggiati, stimolati e sostenuti. Da quando abbiamo deciso di investire nel far conoscere la disabilità di nostro figlio, abbiamo sperimentato una sorta di moltiplicatore di reciprocità. Questo ha portato ad uno scambio tra Matteo con le sue qualità e potenzialità e le realtà di comunità nella quali si è inserito. L’esperienza del conoscere e di relazionarsi però non va letta come una pretesa perché l’inclusione va progettata, anche con un pizzico di provocazione, ma mai pretesa. Quando si creano momenti di condivisione dove le diversità non sono l’elemento preponderante e, magari per un istante, vengono accantonate, allora compaiono le abilità della persona. E qui vi racconto l’esperienza di Matteo e il suo approccio alla musica. Anche la scuola musicale non aveva mai avuto esperienze di inclusione di persone disabili però ha voluto investire in questa direzione e aprirsi a nuovi bisogni. Così, abbiamo scoperto che nostro figlio ha una particolare abilità nel ritmo: Matteo ha imparato a suonare la batteria grazie a un coraggioso maestro di musica che con i giusti approcci e strumenti è riuscito a far emergere e valorizzare questa sua abilità, tanto da arrivare a un momento importante: suonare con altri. C’è una cosa più bella di suonare gli strumenti in un gruppo dove ognuno fa la propria parte e le diversità non solo vengono meno ma diventano armonia?

Matteo ha vissuto un’esperienza simile anche con gli scout del territorio. Tra l’altro pensare di inserire una persona con disabilità in un contesto come quello degli scout, con le loro regole “militari”, sembra difficile. E invece attraverso gocce di presenza ci siamo riusciti: prima mezz’ora, poi un’ora, quindi mezza giornata per poi arrivare a un campo di una settimana.

Progetto di vita

Dopo la scuola dell’obbligo e tutte le strutture che socialmente troviamo pronte ad accogliere questo tipo di situazioni, per la famiglia si apre un deserto accompagnato dall’interrogativo “cosa segue?”. E ancora una volta diventa importante cercare soluzioni e modalità per continuare ad incoraggiare il ragazzo ad esprimersi e a essere incluso.

Le spinte genitoriali di “allontanare” il figlio e di “lasciarlo andare” destano diverse preoccupazioni. Si parla spesso del “dopo di noi” e, anche se tendenzialmente quest’espressione non sempre piace, risponde ad una paura dei genitori. “Quando noi non ci saremo più che ne sarà di nostro figlio?”. Il “il dopo di noi” è ancor più significativo leggerlo con un “dopo di voi”, con gli occhi del ragazzo disabile che ci guarda e ci dice: “facciamo qualcosa insieme” perché c’è una sua identità che vuole sempre più esprimere senza supplenze. C’è quindi un aspetto di urgenza dell’adultità “qui ed ora” prima ancora che in un “dopo di noi”.

Quando si creano progetti di vita è necessario che questi vengano realizzati non per la persona disabile, ma con la persona disabile per renderla protagonista della sua vita seppur con i suoi limiti. Preparare il proprio figlio all’adultità diventa un imperativo perché i genitori percepiscono che il loro compito sta finendo e le loro capacità di cura non sono più soddisfacenti rispetto ai bisogni di vita e alle necessità del figlio. Occorre quindi inventare e innovare l’offerta di servizi per poter trovare delle risposte a delle scelte di vita capaci di rispecchiare la realtà del ragazzo e della sua disabilità.

E ancora una volta torna la parola “insieme”: attorno a un ragazzo con disabilità, infatti, non c’è solo la famiglia di origine, ma anche quella allargata. Matteo attualmente frequenta la cooperativa Impronte. Fa parte del gruppo “Graficamente” ed è inserito nel “Io domani”, un progetto, finanziato da “etika”, che permette di prepararsi alla vita adulta e di trovare una dimensione di indipendenza che non vuol dire “senza dipendenza”. Una vita indipendente per nostro figlio significa potersi esprimere, entro i limiti delle proprie possibilità, all’interno di strutture e accompagnato da operatori seri e preparati in grado di percepire il protagonismo e di valorizzare la persona. Tale valenza ed efficacia deve essere percepita non solo per la persona fragile e per la sua famiglia ma anche in una dimensione sociale allargata di comunità, di territorio, perché indipendenza e autonomia soddisfano anche bisogni di appartenenza nella società e nella comunità in termini anche di diritti e di qualità di vita diffusa.

Matteo è un ragazzo rock, non è un ragazzo lento. In macchina ho un caricatore di CD da 10 anni e non l’ho mai spostato perché per mio figlio il numero delle canzoni deve essere quello. C’è una canzone che a lui piace spesso ascoltare: “Senso” di Vasco Rossi. “Voglio trovare un senso”, canta Vasco. Le diversità, le disabilità, sono incubatori di senso.

I nostri familiari con disabilità ci insegnano ad essere noi stessi, perché loro vogliono essere loro stessi; a misurare la vita e a viverla con misura; ci mostrano che non esistono solo le parole per comunicare, ma ci sono anche altri linguaggi; ci aiutano ad imparare la semplicità e a cogliere l’essenzialità della vita.

Chiudo con la citazione del libro di Giuseppe Pontiggia, “Nati due volte”, perché chi vive una disabilità nasce due volte: “la prima li vede impreparati al mondo, la seconda è una rinascita affidata all’amore e all’intelligenza degli altri e questa seconda nascita dipende da noi e da quello che sappiano dare a loro “.