I diritti delle persone con disabilità

Intervista a Carlo Francescutti, coordinatore dell’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità

Una nuova via è possibile, è questo il messaggio uscito dal convegno dedicato a “Disabilità e comunità” organizzato dalla Cooperativa Sociale La Rete in collaborazione con Con.Solida e altri enti istituzionali e non. Crisi economica, calo delle risorse pubbliche, aumento dei bisogni, famiglie che non sono più quelle di un tempo. Tutto questo richiede (anche) ai servizi di cambiare. Come farlo è la domanda che abbiamo rivolto a Carlo Francescutti, coordinatore dell’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, ospite del convegno insieme a Maurizio Colleoni referente scientifico del network nazionale Immaginabili Risorse.
Dottor Francescutti, facciamo innanzitutto il punto della situazione: come stanno oggi le persone con disabilità?
Le ricerche epidemiologiche e sociali più recenti dimostrano che sono ancora fortemente discriminate, basti pensare che le persone con disabilità intellettiva, che sono quelle di cui mi occupo, hanno una aspettativa di vita di 10 anni inferiore al resto della popolazione. Ancora oggi in quasi tutti i Paesi faticano a ricevere cure primarie di prevenzione adeguate. Circa il 25% di loro sviluppano un problema di tipo comportamentale, dato che sale al 70% nelle istituzioni tradizionali residenziali. Infine rispetto alla popolazione generale hanno un rischio 10 volte maggiore di subire abusi o violenze. È per questo che è importante rimettere al centro dell’attenzione la Carta dell’Onu per persone con disabilità.
Cosa afferma questa dichiarazione?
Ricorda che le persone con disabilità hanno una legittima attesa di vedersi riconosciuti come cittadini alla pari degli altri ed esorta a costruire le condizioni per una società più giusta. Non è un caso che, da un lato il termine riconoscimento sia il più ricorrente (ben 45 volte!), dall’altro la definizione di disabilità si riferisca ad una menomazione fisica, psichica o intellettiva che in interazione con le barriere genera una disuguaglianza. La Carta si rivolge non solo agli Stati, ma anche ai singoli cittadini: senza un cambiamento nella relazione tra le persone non ci sarà nessun progresso politico e istituzionale, nemmeno nelle nostre organizzazioni.
Rispetto ai servizi che si occupano di disabilità, quali sono secondo Lei gli elementi principali che dovrebbero cambiare?
Il paternalismo, il terrorismo diagnostico e l’assuefazione dei professionisti. Il paternalismo è una delle minacce più grandi per le persone con disabilità in particolare intellettiva, e non vale solo per i servizi. Pensiamo ai genitori che cercano in tutti i modi di proteggere il loro figlio disabile. Verrebbe da chiedersi: cosa c’è di male a cercare di risparmiate a queste persone i dolori, le fatiche, il peso delle decisioni? Il male è grandissimo: perché in questo modo si infilano le persone in un limbo senza via di uscita, in una vita non autentica. E il prezzo da pagare per la persona disabile è altissimo: finisce in un mondo a parte in cui il suo parere non è richiesto e se non ti adatta vuol dire che e lei a non funzionare e quindi bisogna incrementare il controllo e la costrizione. Gli esiti estremi di questo approccio sono un uso spropositato di psicofarmaci e il confinamento in strutture da cui emergono storie di contenzione o di affiancamento uno a uno. Naturalmente ci sono forme di paternalismo più leggere come la commiserazione venata da tratti solidaristici.
Passiamo a quello che lei ha definito terrorismo diagnostico. Cosa intende?
La diagnostica continua a farla da padrona nella testa di molti soprattutto nei servizi sanitari, ma entra anche nel pensiero e nel modo di parlare degli operatori sociali e dei famigliari: finché lo sguardo dell’altro è mediato dallo diagnosi non c’è speranza di liberazione perché fa sparire la persona, essa stessa finisce per identificarsi con la diagnosi.
Infine lei ha parlato di assuefazione dei professioni. Di cosa si tratta?
Mi capita spesso di sentire espressioni come: “lavoro da 20 anni con persone con disabilità intellettiva e so già cosa pensano, cosa è utile cosa è buono per loro”. Sono atteggiamenti che si nutrono di presunzione e sono alibi per saltare la fatica dell’incontro. Qualche volte si alimentano della stanchezza di un lavoro certamente faticoso. Dietro questa assuefazione ci sono molti pregiudizi: non c’è infatti evidenza che una persona con disabilità non sia in grado di autodeterminarsi e che non tolleri cambiamenti. Si fa abilitazione e sviluppo solo nella misura in cui il nostro potere di operatori diminuisce e cresce il potere della persona disabile. Questo è il senso autentico della parola empowerment, no? In questo senso la dimensione del potere è fondamentale perche qui è in gioco la nostra capacità di cederlo.
Quali sono gli antidoti a questa situazione?
Il primo è un riferimento valoriale. Se crediamo nell’identità della persona non c’è disabilità intellettiva che tenga. Abbiamo di fronte qualcuno che è un essere umano come noi, è la condizione di uguaglianza. Secondo antidoto è la crescita della conoscenza scientifica. Con le persone con disabilità intellettiva abbiamo impiegato in questi anni solo briciole di sapere. Infine il percorso di riconoscimento di persone con disabilità è strettamente correlato al riconoscimento della capacità e della dignità del lavoro degli operatori: assistenziale, educativo abilitativo. A noi è affidato un grande compito, intrecciare dei destini, costruire avamposti di umanità dove si evidenzi e si dia testimonianza della ricchezza dell’umano e opportunità di speranza per tanti. Se lo facciamo per le persone con disabilità intellettiva lo possiamo fare anche per altre situazioni di vulnerabilità che attraversano la nostra comunità. Il nostro lavoro in questo senso è un lavoro fortemente profetico.

Fonte Ufficio Stampa Con.Solida