Aghi: nato sotto una buona stella

A poche settimane dall’approvazione della legge sul Dopo di noi a tutela delle persone con disabilità, Daniela Cordara racconta la sua storia e quella del figlio Andrea

Avevo 30 anni quando è nato Andrea, dopo 3 è arrivato Luca e Andrea ancora non parlava, emetteva solo suoni gutturali. Ha pronunciato la sua prima parola – Aghi, il nomignolo con cui lo chiamava il fratellino – quando di anni ne aveva 5. Io ero in un’altra stanza sono corsa da lui, ci siamo guardati negli occhi e siamo scoppiati a ridere.
Già molto tempo prima avevo capito che qualcosa non funzionava e avevo iniziato con mio marito ad interpellare neuropsichiatri e altri specialisti. Tac, risonanze, esami di ogni tipo. Per anni è stato un peregrinare inutile: nessuno sapeva darci una risposta, o meglio molti imputavano le difficoltà di Andrea ad un disagio psicologico e al fatto che io fossi una madre troppo ansiosa che non gli lasciava spazio per sperimentare e acquisire autonomia. Ma io sapevo che non era così, che ci doveva essere qualcosa di organico. Non ci siamo arresi. Andrea ha iniziato percorsi di psicomotricità e logopedia e nel frattempo io mi dedicavo alle ricerche sulla sua ancora misteriosa patologia. In fondo in fondo, non posso negarlo, c’era la speranza che esistesse una soluzione, ma l’obiettivo principale del mio cercare ostinato era capire come farlo vivere bene. All’epoca facevo la traduttrice e ho cominciato a consultare riviste scientifiche di ogni tipo. Passavo ore e ore in biblioteca. Poi negli anni 90 abbiamo acquistato un computer e si è aperto il mondo. Ho scritto ad un centro di ricerca negli Stati Uniti che ci ha indirizzato al istituto auxologico di Milano. Andrea aveva 8 anni quando finalmente è arrivata la diagnosi: un’anomalia genetica rara (ha un cromosoma 1 con un pezzo infinitamente piccolo in meno) che sostanzialmente si traduce in una disabilità di tipo cognitivo, un impaccio motorio e problemi di linguaggio.
E ora che lo so, mi sono chiesta, con chi ne parlo? Il primo istinto è cercare qualcuno che sta vivendo la tua stessa esperienza, che possa capirti e magari darti informazioni. Una sindrome rara, però, significa non avere nessuno da contattare. Mi è venuto in aiuto di nuovo il pc: ho scoperto un’associazione inglese di genitori il cui scopo era proprio mettere in relazione le famiglie con figli con anomalie cromosomiche rare simili. Grazie a loro sono riuscita a mettermi in contatto con altre 5 mamme in tutto il mondo. Sono passati decenni, ma continuiamo ancora adesso a scriverci. La prima cosa che abbiamo fatto è costruire una descrizione delle caratteristiche del comportamento dei nostri figli per aiutare poi chi fa ricerca ad orientarsi ed approfondire. A noi si sono aggiunti altri genitori: oggi in Inghilterra sono circa 200 e ogni anno fanno una conferenza in cui ospitano studiosi da tutto il mondo.
Intanto Andrea cresceva accompagnato dalla buona stella sotto la quale è nato: allegro, capace di adattarsi, con una voglia di condividere e di stare con gli altri; una famiglia e una comunità (il piccolo paese di Martignano) accoglienti. In realtà io all’inizio ero arrabbiata col mondo; quante volte mi sono detta: perché è toccato a me? So di essere stata spesso arrogante e aggressiva, soprattutto nella scuola, perché avevo paura che isolassero Andrea. Ma alla fine ero io che mi isolavo insieme a mio figlio. Vedevo gli sguardi delle persone e mi sembravano inquisitori o infastiditi. Mi ci è voluto del tempo per capire che dovevo permettere agli altri di accogliere mio figlio e perché ciò accadesse dovevo farlo conoscere. Non è stato facile: Andrea a volte fa dei versi o all’improvviso, se vuole qualcosa o si arrabbia, si mette ad urlare; se capita in un luogo pubblico ti senti decine di occhi addosso. All’inizio ero imbarazzata, mi sembrava di dover chiedere scusa. Ma poi ho capito che non c’è nessun motivo per farlo; che occorre invece aprirsi e presentare anche le persone con un comportamento diverso da quello normale o convenzionale.
Se penso alla scuola, ad esempio, non sono certo mancati gli scontri, ma ho anche incontrato insegnanti eccezionali che hanno saputo coinvolgere la classe facendo sì che tutti si sentissero responsabili di Andrea. I suoi compagni non lo hanno mai dimenticato per le feste e i compleanni. Certo poi i bambini crescono, diventano ragazzi e gli interessi cambiano: ci sono i primi amori, le moto… Finita la scuola media Andrea ha frequentato un percorso per operatore nel verde che lo ha aiutato ad acquisire autonomia; poi dopo avere provato diverse esperienze ha scelto – lo ha scelto lui – di lavorare il legno nel centro della cooperativa Laboratorio sociale. La distanza con i coetanei intanto si era ampliata e Andrea era sempre più solo. È stato in quel momento che ho scoperto la cooperativa la Rete che gli ha dato la possibilità di vivere esperienze dentro la comunità, non in un luogo a parte. E di farlo con altre persone disabili, ma anche operatori, volontari, molti dei quali giovani.
Oggi Andrea ha 28 anni, vive ancora con noi. Lavora – anche se per un tempo limitato legato alla sua capacità di concentrazione -, partecipa alle diverse attività proposte da La Rete. Il futuro è un’incognita. Io lo immagino in un ambiente in cui tutti possano tutti capirlo, dove possa comprarsi il pane, parlare con il giornalaio, insomma vivere nella comunità e non rinchiuso in un istituto o in una casa famiglia. Ma è una prospettiva di vita da costruire insieme ad Andrea.

Fonte Tracce, inserto bimestrale de L’Adige | Testimonianza raccolta da Silvia De Vogli